Il corpo non dimentica. L'ADOZIONE TRA CLINICA E RICERCA
Convegno On Demand
Direzione Scientifica: DARIA VETTORI
Relatori di fama nazionale e internazionale
18 ore di formazione online
Accesso alle registrazioni per 12 mesi
In questi due giorni si avvicenderanno professionisti, e non solo, coinvolti nel percorso adottivo, nel tentativo di offrire a chi lavora a contatto con questo mondo strumenti di lavoro ed un'occasione per riflettere.
La scelta di dare spazio alla ricerca scientifica nasce dalla consapevolezza che non è più possibile prescindere dal conoscere le più recenti scoperte neuroscientifiche nell'ambito dello sviluppo e degli effetti della deprivazione precoce. Inoltre, si è provato a dar voce a diversi punti di vista, quello di chi incontra i bambini, le famiglie, gli adolescenti, ma anche a chi vive questa esperienza sulla sua pelle, in prima persona, e può offrire una prospettiva fondamentale e unica.
PROGRAMMA
LECTIONES MAGISTRALES
Luigi Cancrini | L'adozione
Stefano Cirillo | Il bambino maltrattato e l'adozione
I giornata
L'ADOZIONE TRA CLINICA E RICERCA
Daria Vettori | I passi dell'adozione
Manuela Viola | L’Intervento psicomotorio nei bambini adottati
Joyce Manieri | L’intervento clinico sulla famiglia adottiva
Daria Vettori | Accompagnare i genitori tra sogno e realtà. Esperienze di gruppo con famiglie adottive
Pier Francesco Ferrari e Daria Vettori | Adozione tra clinica e ricerca
Pier Francesco Ferrari | Lo sviluppo della mente e gli effetti della deprivazione precoce nello sviluppo
Nathan Fox | Gli effetti delle avversità precoci sul cervello e sul comportamento: Lezioni dal Bucharest Early Intervention Study
Alessandra Marcazzan | La presa in carico della crisi adottiva in adolescenza
Massimo Maini e Daria Vettori | Essere in un gesto. Accompagnare l’adolescenza adottiva. Esperienze di gruppo con adolescenti adottati
Daria Vettori (chairman) | Apertura tavola rotonda coi docenti della giornata a partire dai quesiti inviati dai partecipanti
II giornata
NARRARE L'ADOZIONE
Monya Ferritti | L'adozione come corpo estraneo della società
Daria Vettori | Accompagnare gli adulti adottati. Percorsi di gruppo
Devi Vettori | Testimonianze o storie di vita? Adozione raccontata
Massimo Maini e Daria Vettori | Narrare l’adozione. Il tema della verità e del racconto delle origini. Il concetto di verità sostenibile
Greta Bellando | Il cerchio della storia. Le persone adottate si raccontano ai loro figli
Massimo Ammaniti | Una riflessione finale sull'adozione tra clinica e ricerca
Daria Vettori (chairman) | Apertura tavola rotonda coi docenti a partire dai quesiti inviati dai partecipanti e confronto su casi clinici
Lezione Magistrale
Lezione Magistrale
L’intervento a favore del bambino maltrattato deve collocarsi all’interno di un progetto che prevede varie tappe, che esamineremo una ad una.
Lo snodo principale, una volta provveduto alla necessaria protezione, è costituito dalla prognosi sulla recuperabilità dei genitori: questi saranno in grado, dopo un trattamento iniziato senza una domanda d’aiuto ma su pressione dell’autorità giudiziaria, di diventare (o ri-diventare) “sufficientemente buoni” per occuparsi del figlio?
In caso di prognosi positiva l’intervento sarà centrato sulla famiglia (i genitori – o il genitore recuperabile - e figli), in caso di prognosi negativa sarà destinato al solo bambino, per aiutarlo a elaborare il lutto e avviarlo all’inserimento in una famiglia adottiva.
In ambito psicomotorio si ha la possibilità di incontrare il bambino nella dimensione più nota e vicina a lui: l’espressività motoria, la sua maniera privilegiata di essere al mondo, mezzo che porta tutte le sue tracce esperienziali e gli permette di esprimere il piacere di essere se stesso, ma anche il suo dispiacere, la sua sofferenza e il suo malessere. Attraverso la via tonica-corporea il bambino può esprimere la sua storia passata, le sue relazioni attuali e la sua originalità umana in rapporto con lo spazio, il tempo, gli oggetti e le persone. Nello specifico, il dispositivo della Pratica Psicomotoria Aucouturier offre la possibilità di compiere un viaggio in cui si sviluppano diversi livelli di simbolizzazione e di rappresentazione di sé con l’obiettivo di riunificare, creare o ricreare il legame e l’integrazione tra soma e psiche, tra immaginario e reale, tra presenza e assenza. Accogliere, incontrare e prendersi cura di un bambino adottivo richiede un atteggiamento non intrusivo, avendo sempre chiaro che quel bambino è portatore di una storia particolarmente dolorosa più o meno risanata dalle successive esperienze vissute. L’aiuto psicomotorio ponendosi nell’ottica di un progetto trasformativo della crescita e della dinamica psicologica favorisce la costruzione di un processo di coesione e riunificazione delle parti per rafforzare la costituzione di una propria un’identità.
L'intervento clinico sulla famiglia adottiva richiede l’acquisizione di una competenza professionale specifica sull’adozione. Cercando di mantenere una prospettiva di metà livello capace di includere diversi punti di osservazione dell’esperienza adottiva, vedremo gli strumenti concettuali e operativi forniti dagli approcci teorico- metodologici maggiormente utilizzati nell’attività clinico-terapeutica in campo adottivo. Cercheremo di comprendere la complessità dei processi adottivi ed il loro impatto sul singolo individuo e la sua famiglia, soprattutto oggi che i bambini arrivano in adozione più grandi, con special Need ed esperienze sfavorevoli infantili pregresse che possono portare ad alterazioni nel comportamento, nella gestione delle emozioni, nel controllo degli impulsi e nella capacità di stare in relazione con gli altri. Analizzeremo i compiti evolutivi della famiglia connessi all’adozione, soffermandoci sulla fase adolescenziale ed il bisogno di confronto con le origini da parte dei ragazzi. Uno dei compiti più importanti per i genitori adottivi, infatti, è quello di farsi carico dei “reperti” del passato, di quegli elementi alfabetizzati solo in parte avendo la capacità di accogliere e trasformare gli elementi di “non pensabilità”.
Il rischio è che la presenza del bambino che è stato adottato con la parte non-conosciuta delle sue origini rievochi i «resti non elaborati del passato» della coppia e risvegli ombre misteriose della storia familiare.
La famiglia adottiva deve riuscire ad integrare l’esperienza passata con quella presente mantenendo «il filo della continuità fra il prima e il poi, fra le radici e i suoi frutti, fra le emozioni indicibili e la possibilità di renderle comunicabili e dotate di senso». Altrimenti il rischio è quello di andare incontro a difficoltà importanti, scoraggiarsi ed assumere una postura rifiutante/aggressiva nei confronti del figlio.
Questo intervento ha l’intento di raccontare alcune riflessioni riguardo l’uso del gruppo nell’ambito del sostegno alla genitorialità adottiva, frutto di anni di lavoro con queste famiglie. Tale esperienza, in particolare, risulta essere molto importante per favorire l’incontro con il figlio reale e il riconoscimento. Il processo d’integrazione tra il figlio adottivo tanto atteso e sognato e il figlio reale, portatore a sua volta di una propria storia e di diverse attese, risulta essere, infatti, complesso e non immediato.
Il gruppo diviene, quindi, il luogo privilegiato per accompagnare questo processo, come anche tutte quelle fasi critiche in cui l’adozione si ri-significa in relazione alle tappe della vita sia dei figli che dei genitori. In questo senso diviene assolutamente fondamentale quando i ragazzi entrano in pre-adolescenza e adolescenza. In questo periodo, infatti, i genitori adottivi vivono il dilemma tra darsi ancora la possibilità di recuperare momenti della relazione con i propri figli mai vissuti e accompagnarli nei processi di individuazione. Tra tenere vicino e lasciare andare.
Gruppi non terapeutici in senso stretto, ma esperienziali. Gruppi nei quali la dimensione del rispecchiamento, del vedersi gli uni negli altri, consente di capirsi al di là della parola, di costruire un contenitore, anche corporeo e sensoriale, dove la coppia si sente protetta nei confronti di emozioni non facili da riconoscere e accettare.
Il gruppo diventa, quindi, una sorta di teatro, in cui sperimentare in una dimensione creativa.
Il neonato alla nascita possiede delle competenze e motivazioni di natura sociale. Queste si esprimono all’interno di una complessa comunicazione tra il neonato e la propria madre (o il caregiver). Il bambino esprime già dalla nascita un grande interesse nei confronti degli stimoli sociali (il viso, la voce), in cui la dimensione del movimento, in senso diadico, sincrono e coordinato, è il fulcro entro cui la sua mente e il suo cervello si costruiscono.
A partire dagli anni 50’ e 60’, studi di psicologica, neuroscienze e biologia dello sviluppo hanno dimostrato che le prime esperienze corporee e affettive possono avere effetti a lungo termine sullo sviluppo del bambino. L’esistenza di periodi sensibili dello sviluppo suggerisce che il cervello è particolarmente plastico durante le prime fasi dello sviluppo. Alcune esperienze sensorimotorie ed affettive (o la mancanza di alcune di queste esperienze) possono quindi determinare delle traiettorie di sviluppo anomale, con effetti negativi a lungo termine sulle capacità cognitive, sociali e motorie del bambino.
La natura sociale del cervello dei primati emerge fin dalla nascita (e anche prima), quando i neonati esprimono una naturale attenzione per i volti e un'elevata sensibilità ai comportamenti contingenti con il caregiver. Questa comunicazione intersoggettiva faccia a faccia (face-to-face) è stata a lungo considerata unicamente umana. Tuttavia, recenti ricerche comparative hanno dimostrato che gli scambi comunicativi facciali complessi si sono evoluti in diverse specie di primati per promuovere i meccanismi di regolazione emotiva e probabilmente per fungere da precursori di competenze sociali complesse come l'empatia e la teoria della mente.
Da un punto di vista neurologico gli studi degli ultimi dieci anni hanno dimostrato l’esistenza di circuiti dedicati nella corteccia motoria che sono coinvolti nella codifica delle azioni ed emozioni altrui. Alcuni di questi neuroni, i neuroni specchio, rappresentano infatti un substrato neurale in cui l’osservazione di un azione/emozione attiva delle rappresentazioni motorie condivise. La presenza di un sistema specchio alla nascita, come dimostrato di recente nei neonati di scimmia, ci suggerisce che questi meccanismi sono filogeneticamente antichi e sono probabilmente responsabili di alcune delle competenze sociali del neonato. La possibilità di attivare delle rappresentazioni condivise probabilmente costituisce uno dei meccanismi fondamentali dell’intersoggettività. Ulteriori ricerche su neonati e lattanti dimostrano infatti che i comportamenti comunicativi face-to-face si basano in parte sulle reti corticali sensorimotorie e sulle strutture cerebrali che regolano le risposte emotive. Studi longitudinali sui macachi rhesus hanno infatti dimostrato che l'interruzione delle prime cure materne ha un impatto sullo sviluppo dei circuiti cerebrali coinvolti nella regolazione emotiva durante il periodo dell'adolescenza, aumentando così il rischio di ansia e comportamenti aggressivi. Questi studi sui primati non umani sono quindi fondamentali per comprendere meglio come le perturbazioni delle interazioni sociali precoci abbiano importanti conseguenze a breve e lungo termine sullo sviluppo sociale e sulla regolazione emotiva, con implicazioni significative sull'insorgenza di disturbi del neurosviluppo.
I bambini abbandonati e cresciuti in istituti rappresentano un esempio estremo di trascuratezza. Nei primi anni di vita hanno ricevuto poche interazioni sociali contingenti e rispondenti o stimoli cognitivi. Gli effetti di questa deprivazione precoce possono influenzare i sistemi neurali che si aspettano un'interazione sociale modellata in modo da sviluppare relazioni di cura sicure e protettive e processi cognitivi efficaci. Nel Progetto di Intervento Precoce di Bucarest (BEIP), abbiamo documentato gli effetti duraturi di tale deprivazione. Inoltre, abbiamo pubblicato prove empiriche del fatto che i bambini tolti dagli istituti e inseriti nelle famiglie (affido) mostrano miglioramenti significativi, soprattutto se l'intervento avviene nelle prime fasi della vita del bambino. Questi dati ci hanno portato a formulare un modello degli effetti delle prime esperienze sul cervello e sul comportamento, nonché dell'influenza di determinate esperienze durante periodi sensibili dello sviluppo. Nel mio intervento presenterò una panoramica del BEIP e affronterò le questioni relative ai periodi sensibili dello sviluppo.
Nel corso dell’intervento saranno presentate alcune riflessioni che nascono dall’esperienza di presa in carico clinica di famiglie che si trovano a far fronte ad una crisi adolescenziale della figlia o figlio adottivo.
Essa verrà esplorata a partire da tre possibili vertici di osservazione.
Il primo, prevede di considerare la problematica emergente in una prospettiva relazionale, che non può non tener conto delle specificità del legame adottivo. Spesso i genitori, allarmati dalla gravità della crisi e dall’acuzie dei sintomi del figlio, faticano ad assumere questa prospettiva e tendono a minimizzarne la rilevanza, considerando in primo piano altri aspetti, a difesa di un legame di per sé fragile ed ulteriormente minacciato dalla crisi in atto.
La letteratura e l’esperienza clinica tuttavia ci suggeriscono che l’adolescente adottato deve affrontare dei “compiti evolutivi aggiuntivi” rispetto ai suoi coetanei: le sfide che deve sostenere sono maggiormente complesse, e le risorse a sua disposizione possono essere diminuite da aspetti carenziali o traumatici del suo passato. Questo è il secondo aspetto che ci sembra importante evidenziare, anche perché è facile che venga dimenticato nel momento in cui la crisi esplode in modo inaspettato e dirompente, sovvertendo l’adattamento precedente e sbaragliando anche competenze acquisite e apparentemente ben consolidate.
Il terzo vertice, connesso e complementare ai precedenti, riguarda la possibilità di considerare la crisi come un fattore dinamico, che comporta destabilizzazione, confusione e rottura degli schemi precedenti, ma anche foriero di elementi trasformativi. In adolescenza anche situazioni di grave emergenza clinica ed educativa possono contenere un elemento di speranza, che può esprimersi se tutti gli attori coinvolti si impegnano a decodificare il linguaggio della crisi, ad accogliere le istanze di cui è espressione e ad elaborare a partire da esse nuovi significati e nuove opportunità evolutive.
Con questo intervento si intende raccontare l’adolescenza adottiva, a partire dal lavoro con i ragazzi che hanno partecipato e che partecipano a gruppi che conduciamo da più di 10 anni.
Nell’adolescente adottato, al senso di estraneità verso i propri genitori e il loro mondo, tipico di questa fase evolutiva, corrisponde l’attivarsi di fantasie e pensieri correlati al fatto che nella realtà vi è un “altrove” non condiviso (la terra d’origine, i genitori biologici, ecc). I ragazzi hanno bisogno di definire una appartenenza, non escludendo delle parti, ma piuttosto arrivando a definire una propria origin-alità : “Se capisco di chi sono, capisco chi sono” (Omar B.). Una storia che non può essere narrata prima di questo momento e che trova le sue radici prima di tutto nel sentire del corpo, come contenitore sempre vivo della propria storia.
Questo sentire verso la propria adozione e il risvegliarsi di vissuti e sensazioni associate alle fasi più precoci della vita (i neuroscienziati ci dicono oggi che l’adolescenza riapre importanti finestre sensibili di sviluppo), provocano spesso l’ingresso in fasi critiche la cui evoluzione è nel cosiddetto “fallimento adottivo”. I nostri gruppi sono nati anche con l’obiettivo di prevenire questi eventi profondamente e nuovamente traumatici.
Il gruppo diviene uno spazio e un luogo di con-tatto, dove prima della parola, si incontrano e si riflettono sensazioni ed emozioni, occhi, mani, odori e sapori. Uno spazio privilegiato perché protetto, contenitivo e tutelante. In questo luogo i ragazzi si permettono di iniziare a immaginare come può essere andata, di provare a rispondere a domande pur non avendo soluzioni certe, entrando nel mondo del possibile. Gli uni, in modo “riflessivo”, riempiono i vuoti degli altri, proponendo storie pensabili e narrabili.
Apertura tavola rotonda coi docenti della giornata a partire dai quesiti inviati dai partecipanti
Il tema dell’adozione tocca spesso corde emotive molto profonde e non di rado è anche accompagnata da note di benevolenza e compassione. Tuttavia, l’adozione rappresenta una anomalia in una società in cui i legami di sangue sono tuttora prevalenti e non è un caso che le coppie che vi ricorrono siano nella stragrande maggioranza dei casi infertili o sterili e l’adozione sia, inizialmente, il piano B della coppia per avere figli.
L’estraneità dell’adozione nella normatività familiare si rileva sia nei confronti delle famiglie adottive sia nei confronti delle persone che sono state adottate. Le famiglie adottive sono rappresentate in maniera polarizzata, generose, caritatevoli e altruiste oppure coraggiose, avventate o incaute. Anche le persone che sono state adottate sono vittime di discriminazioni multiple che spesso si trasformano in un vero e proprio stigma quando i luoghi comuni le descrivono come fortunate per un verso o problematiche per altri.
A partire da queste premesse l’intervento toccherà i temi della stigmatizzazione dell’adozione, dei pregiudizi consapevoli e inconsapevoli nei media, nella società, nelle istituzioni, fra le famiglie adottive e nei servizi e negli operatori del sociale. Si darà conto, inoltre, delle conseguenze degli stereotipi e dei pregiudizi sui bambini che sono stati adottati.
Il fatto di vivere la condizione di adottivi, gioca un ruolo importante nell’intera esistenza. Le persone che hanno questa storia, anche raggiunta l’età adulta, possono avere un forte desiderio di condividere con altri, vissuti ed emozioni. Oggi, nel nostro paese, vi sono molte persone oramai adulte adottate che chiedono di potersi incontrare, non, come alcuni potrebbero ritenere, per creare una sorta d’isolamento, ma piuttosto per poter trovare, in una dimensione gruppale e di confronto, un senso di appartenenza ed un linguaggio comune che va al di la delle parole stesse. Gli Enti e le Associazioni sono chiamate ad offrire questa opportunità, intercettando sempre più questo bisogno. Se in passato, infatti, l’attenzione, è stata posta sulla formazione e il sostegno dei genitori adottivi, finalizzata ad uscire da un modo di fare adozione centrato sui bisogni degli adulti piuttosto che dei bambini, oggi la necessità crescente è quello di accogliere e dar voce anche a chi questa esperienza l’ha vissuta sulla propria pelle e desidera condividerla e raccontarla.
La dimensione del gruppo consente, a chi partecipa, di poter raccontare la propria storia, anche se non corrisponde fedelmente alla “verità”, condividendola con altri. Un percorso di questo tipo permette, attraverso le identificazioni, di ridimensionare e di trovare, nell’altro, le risorse, il proprio passato e il futuro. Un luogo da vivere come laboratorio di narrazione, dove poter sperimentare forme di racconto senza il timore di non essere compresi o del giudizio. Il gruppo, da la possibilità di parlare apertamente dei propri vissuti, rispetto alla ricerca della propria identità, alle domande sulle origini e sul proprio essere figli e genitori (oggi o nel futuro), così come del rapporto con il mondo esterno, ancora portatore di tabu e pregiudizi.
La narrazione che spesso viene fatta delle storie di adozione assume sfumature proprie più di “una testimonianza”, termine che in effetti viene utilizzato per definirle il più delle volte, e che racchiude in sé l'idea di un modello a cui far riferimento, attribuendo a tali racconti di vita un valore distorto.
A cosa serve ascoltare il racconto di vita di una persona con background adottivo?
Occorre anche in quanto operatori psico sociali fare un salto di pensiero, andando a cercare le motivazioni di questa domanda in quello che queste storie fanno risuonare in noi rispetto alla loro utilità oltre che in ciò che ascoltiamo e passare quindi dall’idea di testimonianza a quello di un racconto di vita da ascoltare con cura ma da non fare assurgere a modello con cui comparare le vite altre anche perché in questo automatismo si annida qualche rischio.
È quindi necessario decostruire il bisogno stesso di avere esempi e la modalità con cui si propongono e si "utilizzano" agendo una riflessione su questo tema per costruire una narrazione diversa che parta anche dai vissuti ma che riesca ad aprire lo sguardo oltre ad essi.
Dire e raccontare la verità in adozione, rappresenta un argomento che impegna non solo i protagonisti diretti della storia adottiva come i figli e i genitori adottivi, ma anche i diversi professionisti che a vario titolo devono pronunciarsi su questioni di tutela e protezione.
Al di là dei possibili vincoli giuridici, il problema che ci si pone non è solamente circoscritto a “rivelare” la condizione di fatto di quel minore, ma come aver cura della narrazione della sua storia adottiva.
E qui la questione diventa ricca di numerose sfaccettature e di rischi, se trattata con frettolosità e superficialità.
Quando i genitori adottivi, al termine di un lungo, faticoso e spesso doloroso percorso, vengono sollecitati a “parlare” con i propri figli riferendo loro la “verità”, spesso si chiedono: devo raccontare tutto quello che so? Ma quello che so è veramente tutto? Devo raccontare anche i momenti più dolorosi? Ma è proprio necessario?
Ben oltre la richiesta di avere tutte le informazioni della propria storia, i ragazzi attendono e sollecitano gli adulti a condividere la verità di quanto accaduto nella loro vita. Elementi fondamentali, le informazioni, devono essere collocate in un contesto specifico costituito da bisogni, aspettative che vanno al di là del semplice resoconto degli eventi accaduti.
Per tali motivi la nostra riflessione si indirizzerà ad approfondire la tematica della narrazione della verità che nominiamo “sostenibile”. Una verità che è in grado di coniugare le modalità di racconto dei fatti e delle informazioni all’interno di una relazione che mantiene i connotati della cura e della sintonizzazione e sincronizzazione emotiva.
Una narrazione della verità della storia e delle “origini” che implichi la capacità di sostenere, di reggere, proteggere, difendere, conservare, nutrire, ma anche che offra la possibilità di sapersi ritrovare, di sentirla propria, di fondare in quel racconto l’identità e il senso stesso della propria storia e della propria vita.
L’adozione non può essere considerata un evento nella vita che ha un “inizio” ed una “fine”; nel corso degli ultimi anni, sempre di più grazie anche all’ascolto delle voci degli adulti adottati, si è compreso come l’adozione sappia divenire nel tempo accompagnando i suoi protagonisti nelle tappe salienti della vita.
Seppur negli ultimi anni la letteratura ci stia fornendo, sempre di più, riflessioni in merito al divenire adulti e alla genitorialità delle persone adottate, ancora si è dibattuto poco rispetto a “Come” chi ha una storia di adozione deciderà di narrarla o non narrarla alle generazioni future.
All’interno di questo lavoro il focus è proprio come l’adozione sappia “narrarsi e ri-narrarsi” nel tempo, non solo a se stessi ma anche a chi sta accanto nella quotidianità ricoprendo il ruolo di partner o figlio.
Raccontare di sé a qualcun altro è sempre e comunque una tappa narrativa complessa e densa di significati, a maggior ragione quando nel proprio vissuto è presente un “altrove” con cui spesso si riprende maggior contatto proprio nella transizione verso il divenire coppia o genitore.
“Come si trasmetterà la propria storia? Come si narreranno i tasselli mancanti o perfino quelli in più? Si racconterà tutto o quello che si ritiene in quel momento o in quella relazione, necessario? Da soli, o con l’aiuto di qualcuno?” Che effetto questa storia avrà su chi la ascolta?”
Queste sono alcune delle domande che hanno fatto da cornice alle riflessioni realizzate all’interno di una ricerca qualitativa svolta tra il 2016 e il 2021 (Bellando, Vettori).
A questo confronto hanno partecipato 11 adulti con storie di adozione nazionale o internazionale e all’interno del dialogo si sono inserite le voci di tre partner e due figlie di adulte adottate.
Da questo lavoro si è compreso come davvero non ci sia una “fine” quanto piuttosto nuovi inizi in cui ciascuno può ri-trovare parti di sé che sanno essere traccia di ieri, oggi e domani.
Come la clinica ha sicuramente indicato dei quesiti orientativi nei confronti della ricerca come ha ripetutamente messo in luce Eric Kandel, ugualmente la ricerca con le sue scoperte ha sollecitato la clinica ad adottare nuovi approcci valutativi e terapeutici, che verranno illustrati facendo riferimento a Bowlby e su un altro versante a Margareth Mahler.
Apertura tavola rotonda coi docenti della giornata a partire dai quesiti inviati dai partecipanti e confronto sui casi clinici
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